Al veganismo si giunge in modi e per ragioni che possono cambiare da persona a persona. Anche l’approccio è individuale: c’è chi da subito rigetta l’idea della carne buttandosi a capofitto su tutto ciò che è cruelty free, c’è chi invece sente il bisogno di un succedaneo, di un sostituto che dia anche solo l’idea della carne.

Molto spesso queste ultime persone trovano una soluzione nella carne plant based.

Cos’è la carne plant based?

Come riporta Good Food Institute (Gfi), si tratta di “carne” che non è carne, perché è un prodotto a base vegetale. E si fonda su un’idea interessante: nella catena alimentare “classica”, gli esseri umani sono onnivori e questo significa che assumono cibi animali e cibi vegetali. Ma anche si quando assumono cibi animali, essi hanno, in senso lato, una base vegetale: pensiamo ad esempio alla mucca che si nutre d’erba.

Con la carne plant based si “salta” il passaggio animale, e verdure e ortaggi diventano direttamente “carne”.

Non è esattamente una novità: negli Stati Uniti questo prodotto esiste dal XIX secolo e tra gli anni ’70 e gli anni ’90 del Novecento sono sorte diverse aziende produttrici.

In Asia è un po’ diverso, perché le origini di cibi come il tempeh o il tofu si perdono nella notte dei tempi. Inizialmente il mercato era diretto solo a vegetariani e vegani, ma negli ultimi anni si è allargato anche grazie all’esperienza di aziende come Beyond Meat o Impossible Burger, che si rivolgono anche a coloro che si dichiarano onnivori.

Carne plant based: come è fatta?

Carne plant based
Fonte: iStock

La carne plant based ha la stessa composizione nutrizionale della carne che proviene da un’animale: contiene, come riporta ancora Gfi, proteine, grassi, vitamine, sali minerali e acqua. Somiglia in tutto e per tutto alla carne tradizionale, si cuoce come la carne tradizionale, ha il sapore che ricorda quello della carne tradizionale. Solo che è fatta con le verdure.

Benefici e vantaggi per l’ambiente

Ancora Gfi enumera i vantaggi ecologici che la carne plant based comporta, ovvero:

  • minor sfruttamento delle risorse. Perché per la carne vegetale si usa il 72-99% in meno di acqua, il 47-99% in meno di terra, si provoca il 51-91% in meno di inquinamento atmosferico e si emettono il 30-90% in meno di gas serra;
  • per la carne vegetale non si usano antibiotici. Il problema è legato al fatto che l’utilizzo degli antibiotici nell’allevamento e il nostro consumo di carne tradizionale ci stanno portando a sviluppare dei superbatteri resistenti agli antibiotici;
  • un consumo inferiore o assente di carne tradizionale scongiura il rischio di pandemie. Il coronavirus, il vaiolo delle scimmie, l’aviaria si sono diffuse tra gli esseri umani a causa di un “salto” tra specie che prende il nome di spillover;
  • la ricerca scientifica sulla carne vegetale potrebbe portare a nuove scoperte positive per l’ambiente, gli esseri umani e naturalmente gli animali, che sarebbero tra l’altro fuori da eventuale sperimentazione.

I lati negativi della carne plant based

Carne plant based
Fonte: iStock

I lati negativi relativi alla carne plant based riguardano solo ed esclusivamente il risvolto economico, non altro. La carne vegetale costa paradossalmente di più della carne tradizionale economica, e in tempi di crisi economica coloro che si stavano permettendo questo apparente lusso, non se lo possono più permettere.

Il lusso è apparente per due ragioni: sul lungo periodo si viene premiati in termini di risparmio di risorse ambientali, e inoltre se la richiesta di carne vegetale dovesse essere più massiva, anche i prezzi crollerebbero, oltre che questo potrebbe comportare un aumento dei posti di lavoro.

Il New York Times spiega che si sono verificate diverse perdite negli anni a seguire la pandemia di coronavirus, e ci sono stati licenziamenti significativi nella filiera della carne vegetale, a partire addirittura dal colosso Beyond Burger. I dirigenti del comparto sono fiduciosi, ma è un processo che richiede diversi decenni perché il mercato si stabilizzi, anche grazie alla sensibilizzazione e alla consapevolizzazione dei fruitori.

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